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Imu indeducibile dall’Ires: ecco perché la Consulta ha bocciato la norma del 2012

La motivazione della sentenza 262 chiarisce che la possibilità di scaricare il tributo non è un bonus discrezionale

Dopo l’annunciata decisione contenuta in un comunicato stampa a ridosso dell'udienza (cfr. “L'Imu sui capannoni è costo inerente: la Consulta boccia l’indeducibilità totale per il 2012” di Cristiano dell’Oste e “Imu sui capannoni, sull’indeducibilità un doppio binario che non convince” di Alberto Trabucchi e Lorenzo Trinchera), è stata depositata venerdì 4 dicembre la sentenza 262/2020 con cui la Corte costituzionale ha reso note le motivazioni sottese a tale decisione.

Previo il riepilogo delle vicende di causa, la Corte ha ritenuto opportuno delimitare preliminarmente il thema decidendum, specificando come la questione sottoposta alla sua attenzione non concerna la previsione dell’indeducibilità dell’Imu dall’Irap. Rispetto alle questioni poste alla propria attenzione, e cioè l’indeducibilità dell’Imu dall’Ires, la Corte le ha ritenute fondate con riguardo agli articoli 3 e 53 della Costituzione.

La deducibilità non è «agevolazione»
Dopo un excursus della normativa in materia di Imu ed il necessario chiarimento che la norma in questione non possa considerarsi riconducibile al novero delle «agevolazioni fiscali» – rispetto alle quali la giurisprudenza della Corte ha riconosciuto ampia discrezionalità al legislatore in passato (Corte costituzionale, pronunce 264 e 177 del 2017) – la sentenza puntualizza come il legislatore abbia identificato il presupposto dell’Ires nel «reddito complessivo netto» (articolo 75, comma 1, Tuir) e come, rispetto ad esso, costituisca presupposto altrettanto imprescindibile il principio dell’“inerenza”, da intendersi come «una correlazione tra costi ed attività d’impresa in concreto esercitata» che si traduce in un «giudizio qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo» (Cassazione 1290/20, che richiama Cassazione 450/18).

Tale principio – da cui il legislatore non può evidentemente discostarsi – si riflette, quanto agli oneri fiscali, nella previsione di cui all’articolo 99 del Tuir, secondo cui le imposte sono generalmente deducibili dal reddito, con la sola eccezione:
a) delle imposte sui redditi (poiché, in quanto derivanti dal reddito non possono logicamente rientrare tra i suoi antecedenti causali);
b) di quelle per cui è prevista la rivalsa.

Quanto alle altre imposte, possono considerarsi in ipotesi ammesse deroghe, ma non quando vengano in rilievo fattispecie come quella in esame, relative a tributi direttamente e pienamente inerenti alla produzione del reddito.

Il legislatore non può selezionare la base imponibile
Ciò posto, deve quindi ritenersi che la disposizione censurata (articolo 14, comma 1, del Dlgs 23/2011, nella versione applicabile per il periodo d’imposta 2012) sia in contrasto con gli articoli 3 e 53 della costituzione sotto il profilo della coerenza e ragionevolezza, poiché l’ampia discrezionalità riconosciuta al legislatore tributario non può estendersi fino al punto di selezionare i singoli elementi che concorrono alla formazione della base imponibile: una volta identificato il presupposto d’imposta questo diviene infatti al tempo stesso limite e misura delle scelte operate.

La rottura di tale vincolo di coerenza comporta dei censurabili effetti di distorsione fiscale, quali, ad esempio, un aggravio del tributo sui redditi causato soltanto dalla misura dell’Imu, che potrebbe di fatto azzerare lo stesso reddito netto, ovvero l’indebita penalizzazione di quelle imprese che abbiano scelto di investire i propri utili nell’acquisto della proprietà degli immobili strumentali rispetto a quelle che utilizzano tali immobili in locazione (potendo solo queste ultime dedurre tutti i costi ad essi relativi).

Ciò ovviamente non esclude che il legislatore possa prevedere, in assoluto, limiti alla deducibilità dei costi (inerenti), purché tali limitazioni siano giustificate dalla necessità di:
a) evitare indebite deduzioni di spese di dubbia inerenza;
b) evitare ingenti costi di accertamento;
c) prevenire fenomeni di evasione o elusione.

Fuori da queste ipotesi, deroghe non possono rinvenirsi, neppure in esigenze di gettito: il legislatore è infatti tenuto a rispondere a quest’ultime in modo trasparente, aumentando l’aliquota dell’imposta principale, e non attraverso manovre sulla deducibilità, che si risolvono in discriminatori, sommersi e rilevanti incrementi di base imponibile a danno solo di alcuni contribuenti. Per tali ragioni, ritiene la Corte, deve essere dichiarata la illegittimità costituzionale della norma censurata nella parte in cui prevede l’indeducibilità dell’Imu sugli immobili strumentali dall’imponibile delle imposte sui redditi d’impresa.

Nessuna estensione per il futuro
Con riguardo, infine, alla possibilità di estendere d’ufficio in via consequenziale, ai sensi delle norme sul funzionamento della Corte, tale pronuncia alle disposizioni successive che negli anni a seguire hanno previsto una parziale deducibilità dell’Imu sugli immobili strumentali senza tuttavia disporne l’integrale deducibilità, la Cassazione ha ritenuto – come pure già preannunciato nel comunicato stampa e con una decisione di cui occorrerà valutare gli effetti – che non sussistano i presupposti di tale estensibilità, essendosi nel tempo il legislatore corretto, con ciò prendendo atto di esigenze di equilibrio di bilancio, fino a giungere alla virtuosa previsione della totale deducibilità a partire dal 2022.