L'antieconomicità richiede uno sforzo di chiarezza
La delega fiscale (legge 23/2014) punta a introdurre riforme per rilanciare lo sviluppo e la crescita in un Paese in cui i cittadini, sempre più in difficoltà economica, sono sottoposti a una forte pressione fiscale. Questo è forse il dato più antieconomico in assoluto sia per i contribuenti che per l'amministrazione finanziaria: aspetto che a lungo andare non potrebbe che ripercuotersi anche contro lo stesso Erario.
La delega dovrebbe iniziare una sostanziale riforma del sistema fiscale e contrastare l'evasione. Per quanto riguarda l'abuso del diritto, che configura una situazione in cui si utilizza in modo distorto una norma travisandone lo scopo e ottenendo così un vantaggio non dovuto e che si traduce in materia fiscale in un risparmio d'imposta conseguenza di un comportamento elusivo, la delega avvia un percorso disciplinare certamente positivo ormai da anni richiesto, data l'assenza di una disciplina completa. Se il decreto attuativo riuscirà a perseguire in modo adeguato le indicazioni contenute, le conseguenze potrebbero essere positive almeno per:
- l'unificazione della normativa antielusiva con quella dell'abuso del diritto;
- il legittimo risparmio d'imposta, dato dalla garanzia della libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti un diverso carico fiscale;
- la codificazione di garanzie procedimentali a favore del contribuente prima dell'emissione dell'atto impositivo.
Naturalmente esistono non pochi aspetti lacunosi e tra questi si ritiene vi sia il mancato tentativo di richiedere anche un coordinamento tra la normativa antielusiva e quanto volto a disciplinare l'evasione, cercando di evitare l'uso distorto di concetti aziendalistici come quello relativo all'antieconomicità.
Sotto il profilo fiscale, il concetto di antieconomicità si pone sempre di più al centro delle motivazioni degli avvisi di accertamento dell'agenzia delle Entrate, tuttavia con delle connotazioni difficili da inquadrare. Anche sotto questo aspetto, è antieconomico ciò che si pone al di fuori di una logica economica, ma per fare ciò occorre avere un «modello», con il quale confrontare quanto posto effettivamente in essere dall'imprenditore,
La debolezza delle motivazioni dell'amministrazione finanziaria e delle sentenze in materia sta proprio in questo punto: qual è il modello a cui fare riferimento? Non ci può essere un modello valido per tutte le stagioni, in quanto una corretta analisi dovrebbe tenere conto di tutte le caratteristiche del caso singolo, nonché di tutte le possibili strategie. Né si può argomentare che sia antieconomico ciò che non dà origine a un lucro immediato, in quanto molte scelte imprenditoriali possono dare i frutti in momenti successivi (se così fosse, ogni start up sarebbe di per se stessa antieconomica!).
Spesso poi si confonde o si tende a confondere l'antieconomicità con l'inerenza. Va detto che il «valore normale» si applica all'interno della materia del transfer pricing, ma fuori da ciò o si dimostra che l'imprenditore ha abusato (e qui ritorna prepotente il tema dell'abuso del diritto) delle regole o l'accertamento non ha ragione di esistere. Si potrebbe allora sostenere che un costo è antieconomico, in quanto anomalo e quindi non inerente, ma cadremmo in un nuovo errore: un costo è non inerente se al di fuori della attività istituzionale. Se un professionista acquista una scrivania di un costo elevato per lo studio, non per questo la stessa diventa bene a carattere personale, in quanto difficilmente avrà gadget tali da mutarne la destinazione d'uso. Ciò dimostra quindi che antieconomicità e inerenza non sono concetti che devono tenersi per mano.
Talvolta la gestione antieconomica viene rilevata dall'agenzia delle Entrate in presenza di perdite o bassi utili per diversi esercizi consecutivi (solitamente tre) con il conseguente ribaltamento dell'onere della prova sul contribuente.
L'amministrazione finanziaria, se procede a una rettifica basata sull'antieconomicità, deve rappresentare i motivi per i quali non vi è un collegamento della spesa con l'attività d'impresa. In caso contrario, si è in presenza di una rettifica basata su presunzioni semplici, le quali devono essere accompagnate dai requisiti di gravi, precisi e concordanti.
Spesso le contestazioni relative all'antieconomicità sono supportate in modo forse non corretto da riferimenti all'abuso del diritto e elusione. Tuttavia l'antieconomicità non può dare evidenza di un comportamento elusivo ma bensì di uno evasivo: palese mancato rispetto di una norma fiscale al posto di un suo uso distorto volto a travisarne lo scopo. Sui componenti reddituali non legati all'attività dell'impresa non si possono esprimere giudizi sulla loro economicità o meno proprio a causa della loro mancata correlazione con l'attività imprenditoriale, aspetto che qualificherebbe come evasione la loro rilevazione.
Il corretto significato letterale dell'antieconomicità/economicità conferisce a questo termine un significato più esteso che si concretizza in un giudizio sul comportamento dell'imprenditore che può anche non essere evasivo ma perfettamente inerente con la sua attività.
In campo fiscale il termine antieconomico riferito all'attività imprenditoriale dovrebbe pertanto avere lo stesso significato che assume in ambito aziendalistico. Antieconomico è ciò che è contrario alle leggi economiche, è un comportamento non redditizio, un comportamento che distrugge valore o comunque non ne crea.
Quanto rilevato sotto il versante tributario sull'antieconomicità è ben lontano da considerazioni aziendalistiche gestionali che considerano l'economicità come la capacità di un'azienda di massimizzare il rendimento delle risorse utilizzate. Si tratta, quindi, della capacità aziendale di raggiungere prefissati obiettivi (efficacia) di impiegare le risorse in modo razionale per ottenerne il massimo rendimento (efficienza) in condizione che consentano alla stessa azienda di perdurare nel tempo in una situazione di relativa autonomia (equilibrio, economico, finanziario, patrimoniale).
La valutazione dell'economicità non è il frutto di una semplice misurazione, ma è il risultato anche di giudizi di valore per tener conto delle condizioni di mercato e di ambiente in cui l'azienda opera. L'economicità deve portare alla creazione di valore ed ecco allora che quest'ultima potrebbe essere vista come la naturale conseguenza di una «valida ragione economica», la ragione principe.
Quanto evidenziato fin qui spiega la frequente confusione che in ambito fiscale è stata fatta sui due termini, aggravata dalla necessità di trovare una strada più semplice per operare rilievi incontestabili attraverso l'accertamento induttivo. Purtroppo quando si cerca di realizzare tale obiettivi su questioni che indubbiamente richiedono una sorta di oggettiva discrezionalità si rischia di generare maggiore confusione uscendone decisamente sconfitti.