Imposte

Patent box ancora in cerca di risposte

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di Cristiano Dell’Oste e Flavia Landolfi

L’ultima è stata Parmalat, che proprio venerdì scorso ha annunciato di aver chiuso con le Entrate l’accordo sul patent box, per un beneficio totale di 15-16 milioni nelle tre annualità 2015-17. Per una società che ha definito l’agevolazione, però, molte altre restano in attesa, come dimostra il sondaggio condotto dal Sole 24 Ore del Lunedì su un campione di professionisti e società di consulenza.

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Secondo gli operatori, i due problemi principali sono la complessità della procedura di calcolo del bonus e il ritmo con cui l’agenzia delle Entrate sta esaminando le pratiche in contraddittorio con le imprese: in base alle risposte dei partecipanti - e tenuto comunque conto che il campione è ristretto - poco più di metà delle istanze (55,1%) giace sui tavoli in attesa di una definizione.

Il patent box ha deluso, ma la bocciatura non è totale: per il 70,6% dei partecipanti l’agevolazione ha mancato solo in parte le aspettative. E la spiegazione va forse ricercata nel fatto che tre volte su quattro il valore dello sgravio riconosciuto dal Fisco è stato «leggermente al di sotto della richiesta». Quando l’accordo si chiude, insomma, di solito il vantaggio fiscale è sensibile. Tra le ultime intese vale la pena di ricordare quelle del gruppo Cellular, Biodue e Amplifon preceduti, tra gli altri, nel 2017, da Luxottica e Cefla.

Il fattore tempo

«Credo sia incontestabile che i tempi della “operazione patent box” siano stati eccessivamente dilatati», commenta Maurizio Leo, titolare dell’omonimo studio tributario. Del resto, per quasi il 66% dei partecipanti i tempi di risposta sono inadeguati.

«Il ritardo nell’esame delle istanze pesa troppo e soprattutto per le società quotate, rispetto alle quali gli investitori non sono in grado di valutare l’impatto dell’agevolazione sui conti societari e quindi sul titolo azionario», aggiunge Stefano Simontacchi, managing partner di Bonelli Erede.

Calcoli complicati

Tra i nodi che emergono dal sondaggio c’è la difficoltà di reperire i documenti a supporto delle istanze e completare le analisi di transfer pricing. Inoltre, alcuni dei metodi di calcolo mal si adattano alle Pmi: il Cup (usato dal 26,1% del campione) sconta la mancanza di parametri di mercato oggettivi, mentre con il residual profit split (72,3%) sono tutte in salita le analisi di benchmark riferite a funzioni standard, come la produzione.

La complessità nei conteggi ha rallentato anche l’avvio dei contraddittori. Prima che fossero definiti i “casi pilota”, spiegano alcuni professionisti, non c’era approccio univoco del Fisco. E anche dopo, aggiungono altri,sono rimaste alcune discrepanze tra gli uffici ruling e le direzioni regionali (cui vanno le pratiche delle imprese sotto i 300 milioni di ricavi).

Correttivi possibili

«Il vizio è a monte e consiste nel non aver previsto, in via legislativa, tempi contingentati per l’espletamento delle procedure amministrative - osserva Leo -. Tutto ciò malgrado l’impegno e la preparazione dei funzionari delle Entrate».

D’altra parte, il ruling è dettato dalla legge e per fissare tempi certi (così come un meccanismo di autoliquidazione, ipotizzato da alcuni) ci vorrebbe una modifica della norma. Ma non tutti i correttivi imporrebbero un passaggio parlamentare. Simontacchi ne suggerisce due : «Creare un tavolo di coordinamento tra direzione normativa e uffici ruling delle Entrate, così da avere posizioni univoche: penso per esempio alle divergenze che oggi esistono sulla necessità o meno di aggregare le unit of account. Un’altra proposta è creare semplificazioni di calcolo o safe harbour per le piccole imprese e le start-up», il che alleggerirebbe i costi per le società e il lavoro per gli uffici regionali del Fisco.

Smaltire l’arretrato, comunque, è oggi una delle priorità per le Entrate. Che starebbero studiando un sistema di calcolo semplificato da applicare al 60-70% delle istanze, quelle presentate dalle imprese più piccole. In pratica, si tratta di definire - per i diversi codici di attività delle imprese - parametri di riferimento utili per calcolare in modo relativamente standardizzato il valore dei diversi intangibili. Così da alleggerire il lavoro delle direzioni regionali e concentrare il personale sulle altre pratiche.

Il nodo dei marchi e la flat tax

Sul futuro pesano due incognite. La prima è legata al fatto che l’Italia dal 2017 ha escluso la possibilità di fare istanza per i marchi, allineandosi alle indicazioni Ocse. «È stato un errore strategico - rileva Simontacchi - e questo sicuramente ha contribuito a generare malumore tra gli operatori. Così facendo, oltretutto, si è ottenuto il risultato di lasciare i marchi in quei Paesi che li avevano premiati con regimi di concorrenza sleale in passato, senza farli tornare in Italia». Anche se gli ultimi dati ufficiali sono fermi al 2015-16 (pari a 6.961 pratiche), l’impressione degli operatori è che negli ultimi due anni l’uscita dei marchi abbia frenate le istanze. D’altra parte, nel sondaggio i marchi pesano per oltre un terzo delle richieste, oltre i casi in cui sono abbinati ad altri intangibili.

La seconda incognita dipende da come si inserirà il patent box nel contesto della flat tax, ipotizzata anche per le imprese nel contratto di governo tra Lega e M5s. «Un modello flat potrebbe portare a una decisiva perdita di interesse per l’agevolazione – osserva Leo -. Ma anche in un sistema ad aliquota ridotta potrebbe crearsi l’opportunità di agevolare certi tipi di investimenti o soggetti maggiormente produttivi di valore, in linea con gli orientamenti Ocse».

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