Imposte

Quelle contraddizioni da risolvere prima del debutto dello split payment allargato

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di Raffaele Rizzardi


L'estensione della fatturazione in split payment da sabato prossimo 1° luglio debutta con la ormai consueta violazione dell’ articolo 3, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente , secondo cui «in ogni caso» le disposizioni tributarie non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore o dell’adozione dei provvedimenti di attuazione in esse espressamente previsti.

E qui di adempimenti, specie di natura informatica per clienti e fornitori, ce ne sono parecchi. Vero è che il Dl 50/2017 è stato pubblicato il 24 aprile ma la legge di conversione 96/2017 è entrata in vigore il 24 di questo mese e all’articolo 1, comma 3 prevede l’emanazione di un decreto nei successivi trenta giorni per stabilire le modalità di attuazione di questa innovazione.

Il nuovo split payment porterà ad estendere questa procedura ben più in là di quella entrata in vigore dal 1° gennaio 2015, procedura da cui si era sottratta la stessa agenzia delle entrate (circolare 1/E di tale anno), nell’evidente considerazione che viene a determinarsi un rilevante aggravio amministrativo. Per ogni fattura occorre infatti eseguire due pagamenti, uno per l’Iva da versare all’erario e l’altro per il residuo della fattura a chi l’ha emessa.
Ma anche e soprattutto per chi deve rilasciare le nuove fatture, la strada si presenta in salita.

La norma uscita dalla legge di conversione è un capolavoro di contraddizioni. Afferma infatti che i clienti devono rilasciare un documento attestante la loro riconducibilità alle nuove disposizioni, ma solo a richiesta di chi dovrà emettere la fattura. Quest’ultimo, se in possesso di tale attestazione, è tenuto all’applicazione del regime.

Come è (malamente) scritta la norma, sembrerebbe che il fornitore inerte, che non chiede cioè al cliente se deve o meno emettere la fattura in split, può continuare a spedire fatture normali. Ma così non è, e spetterà al decreto di attuazione chiarire questo aspetto.

D’altro lato abbiamo anche assistito a casi di aziende di servizi, che – nel dubbio - hanno chiesto a tutti i loro clienti, compresi i professionisti, se per caso sono società commerciali controllate, direttamente o indirettamente dal tesoro o dagli enti locali, piuttosto che società inserite nell’indice Ftse Mib della Borsa italiana (per fortuna qui non si scende alle partecipate).

Bisogna poi regolare l’argomento delle note di variazione, sia per quelle relative a fatture già emesse – nel qual caso il buon senso direbbe di operare con documenti ordinari, in quanto la nota di variazione non pone in evidenza una nuova operazione, ma integra in più o in meno il documento originario – ma anche e soprattutto per le fatture in split payment.
Se infatti una fattura in questo regime comporta il pagamento dell’Iva all’erario, la nota in diminuzione dà luogo ad un credito verso lo Stato, che verosimilmente viene compensato dal cliente con l’Iva dovuta sulle fatture pagate. E vista l’estensione alle società commerciali, non deve essere dimenticato il regime delle note di variazione per sconti di fine anno, la cui base imponibile è formata da percentuali calcolate su fatture ordinarie per il primo semestre e in split per il secondo.

Questa procedura è già stata autorizzata dall’Unione europea per un triennio, che scadrà a metà del 2020. Anche questa volta c’è l’impegno a non chiedere la proroga, tanto più che tutta la pubblica amministrazione è già destinataria di fatture elettroniche canalizzate nel sistema di interscambio gestito dall’amministrazione finanziaria e, una volta individuate le società commerciali destinatarie dello split payment, non sarebbe difficile estendere la fattura elettronica anche per le operazioni nei confronti di questi soggetti.

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