Scoppia il caso Web tax: «Una sanatoria preventiva»
La cosiddetta «web tax» introdotta con la manovrina d’aprile (Dl 50) si configura a tutti gli effetti come una «sanatoria preventiva e volontaria» per invogliare le multinazionali a regolarizzare la loro posizione fiscale a prescindere che siano imprese digitali o meno. Insomma un’agevolazione disegnata per reagire alle pratiche più aggressive di concorrenza fiscale di altri paesi e per salvaguardare livelli minimi di gettito. Se funzionerà o meno lo diranno solo i mesi a venire. E solo alla luce dei risultati conseguiti si potrà valutare «la coerenza di questi interventi con i principi generali del nostro sistema tributario».
È quanto rileva l’Ufficio parlamentare di Bilancio in un nuovo focus pubblicato ieri e dedicato alle misure anti-elusione per le imprese digitali. L’analisi fa seguito a un precedente studio in cui si mettevano in evidenza le ampie capacità dei big del web di sfuggire dalla tassazione nazionale. Il caso menzionato è quello di due tra i maggiori over the top, Google e Facebook: nel 2015 i ricavi dichiarati e tassati in Italia non superano rispettivamente lo 0,3% e lo 0,1 di quelli europei, a fronte di transazioni localizzate nel nostro Paese stimate dall’UpB in circa il 2,4% e il 2,8%.
La scelta del Governo di prendere la strada della agevolazione anziché quella della penalizzazione, prevista invece nel Ddl Mucchetti (numero 2526 all’esame del Senato), sarebbe giustificata dall’assenza di un coordinamento internazionale e dall’oggettiva difficoltà dei singoli Paesi di risolvere le complesse questioni tributarie legate alla diffusione dell’economia digitale. Ma sull’efficacia dell’approccio scelto «è legittimo nutrire alcuni dubbi» scrive l’UpB, secondo cui «proprio le imprese digitali potrebbero essere incentivate a rimanere “nell’ombra” sfruttando i margini di elusione dei quali dispongono e cercando di differire la contrattazione dell’onere tributario. La convenienza ad aderire alla procedura sarà tanto maggiore per imprese per le quali un accertamento ordinario è più probabile e rischioso».
In particolare, la convenienza per le imprese, e per il Fisco, dipende anche dalla valenza del vincolo, previsto dalla norma, di 50 milioni di ricavi prodotti in Italia in uno dei tre anni precedenti all’attivazione della procedura di regolarizzazione. Nel focus non mancano riferimenti i precedenti tentativi di normare la materia, in particolare con la legge di stabilità per il 2014, che aveva introdotto un divieto esplicito a imprese e professionisti di acquistare servizi pubblicitari online da aziende che non fossero munite di partita Iva italiana; norma poi sospesa e poi abrogata. E nessun esito, si ricorda ancora, hanno avuto tentativi successivi di introdurre una tassazione sul digitale del tipo sia di ritenuta alla fonte (nella legge di stabilità per il 2015 e nel Ddl “Quintarelli e Sottanelli” nel 2015), sia di imposta specifica sul consumo. Insomma la materia resta di difficile soluzione, è la conclusione implicita che arriva dall’UpB, soprattutto se la si affronta con forme di regulation solo su base nazinale.