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Società di comodo, la bussola della neutralità per garantire la detrazione Iva

L’ordinanza 16091/2022 della Cassazione ha rinviato alla Corte di giustizia la perdita del diritto alla detrazione dell’Iva per la società che per tre anni abbia superato il test di operatività

di Massimo Basilavecchia

L’ordinanza interlocutoria della Cassazione 16091/2022 riporta l’attenzione su due temi centrali nella dialettica attuale dell’accertamento tributario, le società di comodo e la neutralità dell’Iva, dimostrando finalmente sensibilità per il conflitto che la normativa sulle società di comodo determina tra esigenze di contrasto a fenomeni patologici e principi fondamentali dell’imposta sul valore aggiunto (si veda il precedente articolo «Alla Corte Ue l'indetraibilità dell'Iva per società bocciate al test operatività»).

La Suprema corte ha rinviato alla Corte di giustizia dell’Unione europea l’esame di tre questioni pregiudiziali, riguardanti la “presunta” perdita del diritto alla detrazione dell’Iva per la società che abbia per tre anni conseguito risultati di non idoneità al test di operatività, collocandosi così in base all’articolo 30 della legge 724/1994 tra le società “non operative”.

L’impostazione del tutto condivisibile dell’ordinanza, molto precisa nella motivazione, induce a chiedersi come sia stato possibile che, per molti anni, la questione non sia stata esaminata dalla giurisprudenza nei termini dubitativi che ora finalmente vengono esternati e sottoposti alla Corte di giustizia.

La disciplina in materia di detrazione dell’Iva

Per le società che non superano il test di operatività l’eccedenza detraibile Iva non è utilizzabile in compensazione né può essere richiesta a rimborso (comma 4 dell’articolo 30); pur discutibile, questa previsione appare ancora ragionevole nella misura in cui ha evidentemente un’efficacia provvisoria, perché la situazione di non operatività può giustificare una “sospensione” dell’utilizzo del credito. Ma il periodo successivo va oltre, e prevede, al perdurare per un triennio della situazione di non operatività, l’ulteriore conseguenza dell’impossibilità di riporto a nuovo del credito, lasciando così intendere - anche se in modo non esplicito - che la detrazione possa considerarsi definitivamente perduta.

Ne conseguirebbe che la detrazione viene così vanificata del tutto, non solo per società che non abbiano effettivamente svolto attività d’impresa, ma anche per quegli enti che siano in una situazione di stallo operativo e continuino però ad esistere in forma societaria. In questo secondo caso, una delle finalità perseguite dalla norma, ossia quella di incentivare lo scioglimento di società inattive, finisce però con il compromettere - se non viene seguita un’interpretazione adeguatrice, non impossibile - il diritto a recuperare l’Iva, assicurato, per il principio di neutralità dell’imposta, a qualsiasi operatore si collochi sul mercato e intenda in prospettiva realizzare operazioni imponibili. In sostanza, l’insuccesso commerciale di un’iniziativa, quali che ne siano le cause, finisce con il compromettere il principio che vuole che l’Iva non resti in nessun caso a carico del soggetto passivo diverso dal consumatore, assimilando in un esito dirompente sia ipotesi di indebita assunzione della soggettività passiva Iva, sia ipotesi nelle quali l’esercizio dell’attività economica non ha permesso i risultati considerati “normali”. Tra l’altro in un contesto nel quale, all’interno della disciplina nazionale sull’Iva, l’articolo 4 del Dpr 633/1972 già esclude dalla soggettività passiva società costituite per assicurare solo il godimento personale di determinati beni da parte dei soci.

Le questioni sottoposte alla Corte di giustizia

La prima questione sollevata (in relazione all’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2006/112) riguarda proprio il profilo della soggettività passiva, ossia se questa possa essere disconosciuta anche solo per il conseguimento di risultati economici inferiori a quanto la legge predetermina, restando oltretutto la società soggetto passivo Ires a tutti gli effetti come ente commerciale.

La seconda questione riguarda specificamente la detrazione Iva in relazione all’articolo 167 della direttiva: «Questa Corte dubita in ordine al fatto che il rischio di abuso dello strumento societario, in relazione al quale il legislatore nazionale ha introdotto la misura in esame, e la conseguente esigenza di evitare che indebite fruizioni di agevolazioni di natura fiscale connesse alla veste societaria adottata dall’ente giustifichi, sotto il profilo del pregiudizio integrale - del diritto alla detrazione dell’Iva, tale misura».

La terza questione è posta da un’angolazione particolare, sotto il profilo della possibile lesione dei principi di certezza del diritto e di affidamento, poiché un sistema così congegnato non consente all’imprenditore societario di avere certezza sul diritto alla detrazione, quando acquista beni o servizi, in quanto sarà solo la congruità del risultato finale a consentire un pieno esercizio del diritto.

In un precedente intervento («La neutralità dell’Iva, il fine giustifica i mezzi?»), si era segnalato come la preminenza del principio di neutralità dell’Iva per gli operatori economici sia sempre più riconosciuta a tutti i livelli, garantendone l’attuazione concreta con una pluralità di mezzi (note di variazione, istanze di rimborso, rivalse successive, quantificazione delle basi imponibili al netto dell’onere dell’Iva).

L’ordinanza della Cassazione integra questo quadro confermando la tendenza.

La Corte di giustizia farà certamente chiarezza su queste perplessità di grandissimo rilievo: quale che sia la risposta ai singoli quesiti, è presumibile che la disciplina del comma 4 dell’articolo 30 dovrà essere espunta o radicalmente ripensata, o quanto meno interpretata secondo canoni di ragionevolezza che limitino l’utilizzo del diritto di detrazione senza comportarne la perdita.

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