Controlli e liti

Stop alla presunzione di residenza italiana con la prova contraria

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di Paola Bramato

Per la Cassazione vanno considerati attentamente gli elementi probatori presentati dal cittadino italiano che si dichiara residente all’estero.
L’attenzione dell’Amministrazione finanziaria per i trasferimenti di residenza delle persone fisiche in territori a fiscalità privilegiata non è un tema nuovo. Da diversi decenni infatti l’autorità competente tenta di scongiurare i cosiddetti “trasferimenti di comodo”, non giustificati da alcuna ragione personale ma bensì volti esclusivamente a minimizzare il carico fiscale (circolare 304/E/1997).
Con la legge finanziaria per il 1999, il legislatore ha agevolato la lotta all’evasione inserendo il comma 2-bis all’articolo 2 del Tuir (poi modificato dalla legge finanziaria per il 2008), ai sensi del quale «si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del ministero dell’Economia e delle Finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale».
La norma ha una portata limitata, infatti affinché operi è necessario che ricorrano precise condizioni. Le persone fisiche nei cui confronti trova applicazione la norma devono essere cittadini italiani iscritti all’Aire (Anagrafe italiani residenti all’estero) ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato (individuati con Dm 4 maggio 1999, modificato dall’articolo 2 del Dm 27 luglio 2010).
Il citato comma 2-bis non ha la pretesa di introdurre una presunzione assoluta di residenza italiana bensì sancisce un’inversione dell’onere probatorio a favore dell’Amministrazione finanziaria, la quale non è più oberata dalla difficile prova di un eventuale simulazione di trasferimento.
Nei confronti della presunzione di residenza è quindi ammessa prova contraria; questo si evince non solo dal tenore letterale della norma, ma anche dalla recentissima giurisprudenza di legittimità che ha accolto il ricorso di un cittadino italiano iscritto all’Aire verso una sentenza che lo aveva giudicato residente ai sensi dell’articolo 2, comma 2-bis. La Cassazione ha, infatti, ritenuto che i giudici del merito non abbiano deciso a seguito di un’adeguata disamina degli elementi probatori forniti dal privato al fine di dimostrare l’effettività della propria residenza all’estero e che, al contrario, essi siano stati valutati “tout court riconducibili al solo intento elusivo di risparmio fiscale” (Cassazione, ordinanza 19410/2018).
Una volta che il criterio formale dell’iscrizione all’anagrafe italiana viene meno diventa fondamentale per l’amministrazione (nel caso di trasferimento in un paese white list) o per il cittadino (nel caso di inversione dell’onere della prova ex articolo 2, comma 2-bis) fornire «la dimostrazione di avere» con il territorio «il più stretto collegamento nella abituale e preminente gestione dei propri interessi di vita ed economico-patrimoniali». A tal proposito gli elementi probatori possono essere i più disparati, i canoni per gli affitti, le quietanze di pagamento di utenze domestiche, abbonamenti in palestra, eccetera; non deve però essere lasciato in secondo piano l’aspetto personale, un concetto non estraneo alla giurisprudenza di merito che in passato ha ricondotto l’individuazione del domicilio fiscale all’effettivo centro degli affari e degli interessi , non solo economici, ma anche morali e familiari ( Ctr Lombardia dell’11 aprile 2017, n. 1685).

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