Adempimenti

Sul monitoraggio dei bitcoin cercasi semplificazione

di Federico Andreoli e Angelo Busani

Tra pochi mesi, i contribuenti che nel 2017 hanno avuto i bitcoin (o altre criptovalute) nel loro portafoglio dovranno confrontarsi con la compilazione del quadro Rw. Ci sono notevoli incertezze: ad esempio, bisogna capire se si tratta di «valute», di «attività finanziarie» o di «altro», individuarne la localizzazione geografica e stabilirne la valorizzazione.

La qualificazione dei bitcoin

Il quadro Rw è preordinato a ospitare «investimenti all’estero ovvero attività estere di natura finanziaria» (articolo 4, comma 1, dl 167/1990), espressione considerata dall’agenzia delle Entrate con interpretazione assai largheggiante. Allora, sebbene si possa lungamente discutere sulla qualificazione delle criptovalute, pare non plausibile che si possa pensare di non farle rientrare nel generico concetto di «investimento». Occorre inoltre notare che l’acquisto di criptovalute sarebbe soggetto agli obblighi di monitoraggio anche se di valore inferiore ai 15mila euro (articolo 4, comma 3, Dl 167/1990). Infatti, il limite si rivolge solo a «depositi e conti correnti bancari», mentre la stessa Banca d’Italia (comunicazione del 30 gennaio 2015) ha affermato che le criptovalute non sono valute aventi corso legale.

La localizzazione geografica

Gli obblighi di monitoraggio tuttavia sussistono solo per i beni “esteri”. La tecnologia blockchain, sulla quale si basano i bitcoin e le altre criptovalute, rende però arduo determinare una loro precisa localizzazione. Infatti, i bitcoin sono dematerializzati, non hanno un “emittente” localizzabile in un determinato Stato e non prevedono un intermediario.

Quanto al ruolo dell’eventuale “depositario”, sembra che le modalità di archiviazione informatica delle criptovalute non possano essere il criterio discriminante per stabilire se il bene sia o meno “estero” ai fini dell’Rw. Infatti, tale situazione non è in alcun modo paragonabile a quella dei titoli quotati sui mercati regolamentati che, ai fini Rw, sono localizzati presso la banca depositaria (ad esempio, sul conto corrente presso una banca svizzera).

Le modalità di archiviazione delle criptovalute sono tecnicamente assai variegate e modificabili con un semplice click. Se ad esempio, Tizio ha acquistato 100 bitcoin e li ha depositati in un wallet (portafoglio) gestito da una società statunitense, si può dire che Tizio abbia un investimento negli Usa? Ma se il server su cui è gestito il wallet è localizzato nelle British Virgin Islands, Tizio allora ha un investimento in uno Stato blacklist, con le relative conseguenze (ad esempio, il raddoppio delle sanzioni)? Se 10 giorni dopo l’acquisto, Tizio ha archiviato i bitcoin sul suo pc in Italia (oppure ha ricevuto fisicamente il supporto hardaware crittografato che li contiene) vuole dire che deve compilare il quadro Rw per 10 giorni?

Evidentemente, anche la modalità di pagamento deve essere tenuta in considerazione. Ma è da sola sufficiente a determinare la sussistenza degli obblighi di monitoraggio? Ad esempio, se Tizio ha acquistato i bitcoin con pagamento bancario dall’Italia verso l’estero, è sempre soggetto a monitoraggio? mentre se ha pagato Italia su Italia è esente dal monitoraggio?

In conclusione, pare che i tradizionali criteri di localizzazione possano spesso condurre a risultati troppo ambigui per essere fonte di severe sanzioni pecuniarie amministrative.

La valorizzazione

Il criterio di valorizzazione è fondamentale perché le sanzioni sono quantificate percentualmente sugli «importi non dichiarati» (articolo 5, Dl 167/1990). Se si pensa che nel dicembre del 2015 dieci bitcoin valevano circa 4mila dollari, mentre a metà dicembre 2017 valevano circa 190mila dollari, appare evidente che applicare le sanzioni Rw sul «costo di acquisto» ha conseguenze assai diverse rispetto alla loro applicazione sul «valore di mercato».

Al riguardo, per quanto chiarito dalle istruzioni all’Unico (che rimandano per la valutazione ai criteri valevoli ai fini Ivafe) e quanto disposto dalla circolare n. 28/E del 2 luglio 2012 (al paragrafo 2.3) in tema di Ivafe, per le criptovalute dovrebbe sempre valere il criterio residuale del costo di acquisto. E ciò in quanto le criptovalute non sono una valuta avente corso legale; non sono investimenti aventi una quotazione in un mercato regolamentato e non hanno nè un valore nominale, nè un valore di rimborso.

Rimodellare la modulistica

Essendo dunque quasi impossibile “tradurre” in chiave di criptovaluta le risposte che l’amministrazione ha fornito in merito alla compilazione del quadro Rw, sarebbe auspicabile l’introduzione dell’obbligo di indicare il possesso di criptovalute in un nuovo rigo specifico del 730 e dell’Unico (e non necessariamente nel quadro Rw). Tralasciando totalmente l’aspetto territoriale e prevedendo il costo di acquisto come unico criterio valutativo.

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