Imposte

Flat tax, una perdita di gettito difficile da assorbire

di Stefano Toso

La proposta dell’Istituto Bruno Leoni (Ibl) si inscrive in un dibattito che è lungo ormai quasi un secolo: sono degli anni trenta i primi studi di Meade sul sistema tax-benefit inglese e degli anni sessanta l’idea, semplice ma geniale, di Friedman, di integrare il prelievo fiscale sulle persone fisiche con la spesa di welfare. La proposta dell’Ibl, coordinata da Nicola Rossi, non è nuova nemmeno per il dibattito italiano se si considera che un’ipotesi di riforma simile era stata avanzata circa vent’anni fa dallo stesso Rossi e da Dino Rizzi.

In cosa consiste la proposta? Nel riformare in senso flat-rate le principali imposte del nostro sistema tributario e quindi l’Irpef, la cui (unica) aliquota marginale verrebbe posta al 25%, e nel rimpiazzare le politiche assistenziali vigenti con una misura di contrasto della povertà denominata «minimo vitale», un trasferimento universale su base familiare, non subordinato alla verifica della condizione economica né alla disponibilità a lavorare, differenziato geograficamente e commisurato al numero di componenti della famiglia in base alla scala di equivalenza Isee. Tecnicamente il minimo vitale assumerebbe la forma di una deduzione base dall’imposta, fissata in 7mila euro annui per una famiglia di un solo componente residente al Settentrione.

Le due cose, flat-rate tax e misura universale di contrasto della povertà, «sono fatte per stare insieme e completarsi a vicenda», si legge nella ricerca dell’Ibl. Un’ipotesi ambiziosa, non incrementale rispetto allo status quo, che prende di petto gli annosi problemi dell’Irpef e supera la logica selettivo-categoriale della nostra spesa di welfare. In pratica, nel sistema riformato le politiche redistributive sarebbero in capo a un unico istituto tax-benefit che: 1) integra al «minimo vitale» i redditi inferiori a esso, 2) restituisce ai redditi familiari superiori alla deduzione base, ma inferiori al complesso delle deduzioni applicabili, il 25% della differenza tra queste ultime e il reddito familiare (ai lavoratori dipendenti e ai pensionati sono concesse, infatti, specifiche deduzioni per oneri di produzione del reddito in aggiunta alla deduzione base), 3) preleva il 25% della differenza tra il reddito familiare e il complesso delle deduzioni se la differenza è positiva. Qualcosa di simile all’imposta negativa di Friedman, considerata dai suoi estimatori The Holy Grail della redistribuzione.

Che giudizio dare della proposta? Le osservazioni sull’inefficienza e l’iniquità del sistema tax-benefit italiano sono condivisibili, così come va dato atto del coraggio con cui si sostiene l’universalismo in fatto di lotta alla povertà. Molti sono però i punti non convincenti. Primo, la sostenibilità finanziaria. La riforma comporta una perdita di gettito di 27 miliardi, la cui copertura sarebbe assicurata da interventi di spending review. Difficile ritenere che abbia più probabilità di attuazione del «reddito di cittadinanza» del M5S, che costerebbe i due terzi di questa proposta. Preferibile sarebbe stato uno scenario alternativo a due o tre aliquote, anche perché il Quarto di Cesare – così all’Ibl hanno battezzato la proposta – comporta un’aliquota media del 25% solo per i contribuenti straricchi ma molto più bassa per tutti gli altri, a causa delle deduzioni. Un secondo punto critico riguarda l’idea di passare a un’imposizione su base familiare, stante l’interpretazione strettamente individualistica che la Corte costituzionale ha avanzato del concetto di capacità contributiva in più d’una sentenza, fin dai tempi dell’abolizione del principio del cumulo. Un terzo aspetto problematico ha a che fare con l’ipotesi di abolire la spesa per assistenza in cash. Come pensare di sostituirla con un’unica misura, il «minimo vitale», visto l’inevitabile contenuto categoriale di alcuni trattamenti (per i non vedenti, le persone non autosufficienti, ecc.) e la conseguente opportunità di riconoscere, a parità di reddito, indennità economiche aggiuntive a chi si trova in condizioni di bisogno?

Sul piano dell’efficienza, infine – e questo è un punto su cui anche Friedman avrebbe da ridire – la proposta è criticabile poiché, prevedendo per i redditi inferiori alla deduzione base la totale integrazione della differenza tra la deduzione e il reddito familiare, produce una «trappola della povertà» del 100%! Solo per fare un esempio, l’aliquota marginale effettiva d’imposta che grava su di una famiglia di due lavoratori dipendenti con due figli residenti al Nord fino a un reddito annuo di 17.220 euro – la deduzione base per questa tipologia familiare – è del 100%: un’aliquota che scoraggerebbe chiunque in quella famiglia a lavorare. Lo stesso dicasi per le altre tipologie familiari, fino alla soglia di reddito corrispondente alla deduzione base.

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