Nuova chance per rivalutare quote e terreni posseduti al 1° luglio
Chiusa la «finestra» prevista dalla legge di Bilancio 2020 si apre quella del Dl Rilancio. Invariate le aliquote
Si chiude la finestra per la rivalutazione di quote e terreni riproposta dalla legge di Bilancio 2020 (articolo 1, commi 693 e 694, della Legge n. 160/2019), si apre quella prevista dal decreto Rilancio (articolo 137 del Dl 34/2020) per le partecipazioni possedute alla data del 1° luglio. Si tratta, lo ricordiamo, di due fattispecie diverse da non confondere.
La «vecchia» rivalutazione
La facoltà, originariamente disciplinata dagli articoli 5 e 7 della legge n. 448/2001, era stata riproposta dalla legge di Bilancio. Era riservata ai soggetti (persone fisiche, società semplici, associazioni professionali ed enti non commerciali) che possedevano, al 1° gennaio 2020, le partecipazioni (qualificate e non, purché non quotate) al di fuori del regime d’impresa di ottenere. Si perfezionava con il versamento di una imposta sostitutiva entro il 30 giugno 2020 e permetteva di ottenere l’affrancamento dall’Irpef o Ires gravante sull’eventuale plusvalenza insita nel valore asseverato da una perizia giurata di stima redatta da soggetti qualificati entro la medesima data (si veda il dossier Rivalutazione 2020, edito da «Il Sole 24 Ore»).
La nuova rivalutazione
Quella prevista dal Dl Rilancio non è una proroga della vecchia disposizione, ma si rivolge ai contribuenti che possiedono i beni affrancabili alla data del 1° luglio 2020, prevedendo il versamento della prima (o unica) rata nonché il giuramento della perizia entro il prossimo 30 settembre.
Resta ferma l’imposta sostitutiva (11% sul valore, da non confondersi con la plusvalenza latente) e, purtroppo, anche il tasso di interesse (fuori mercato) del 3% annuo dovuto nel caso il contribuente opti per la rateizzazione.
Con riferimento alle partecipazioni, potrebbero trovare una accelerazione alcune operazioni di passaggio generazionale che venivano progettate – in ottica pre-Covid – in un orizzonte temporale più lungo, ma che, in presenza della crisi e delle connesse difficoltà di varia natura, scontano oggi la volontà dell’imprenditore maturo a passare la mano. In questi casi sono frequenti, ad esempio, atti quali:
• la donazione, anche attraverso il patto di famiglia, delle quote/azioni ai figli dopo averle affrancate, in modo da “trasmettere” il valore rivalutato (articolo 68, comma 6, Tuir);
• la donazione della nuda proprietà (eventualmente con il valore affrancato), mantenendo l’usufrutto, il quale si consoliderà gratuitamente in capo all’erede/donatario al momento della successione (l’affrancamento del diritto di usufrutto sarebbe inutile perché non si trasmette all’erede: Circolari 6/E/2006 e 12/E/2010).
L’orientamento delle Entrate
Va, però, considerata una recente presa di posizione delle Entrate, sfuggita ai più probabilmente perché contenuta in una risposta ad interpello (n. 441/2019) avente ad oggetto il lascito testamentario a favore di una fondazione.
L’Agenzia ha affermato la (opinabile) tesi secondo cui il principio in base al quale l’erede assume come costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione il valore dichiarato in sede successoria (o il valore normale per i titoli esenti) non si applicherebbe nel caso in cui la partecipazione ereditata poi originasse un reddito di capitale.
Per le Entrate, quando la partecipazione determina in capo all’erede un reddito di capitale (vale a dire in caso di recesso, liquidazione della società, etc.), egli dovrebbe calcolare tale reddito con riferimento al costo fiscalmente riconosciuto in capo al de cuius, mentre il valore dichiarato in sede di successione avrebbe valenza solo quando la partecipazione consente all’erede di ottenere un “reddito diverso” ai sensi dell’articolo 67 Tuir (cessione, conferimento permuta, etc.). Il che, portando avanti il ragionamento delle Entrate, non significa che l’erede potrebbe avvalersi dell’eventuale affrancamento di valore operato in vita dal de cuius, atteso che quest’ultimo risulterebbe irrilevante proprio quando “a valle” si realizza un reddito di capitale.
Ma questa è la situazione in cui si trovano spesso i donatari, i quali, seguendo lo stesso ragionamento, se cedono la partecipazione (realizzando un reddito diverso) possono sfruttare l’eventuale affrancamento operato dal donante, mentre se la partecipazione origina un reddito di capitale (ad esempio in caso recesso o liquidazione della società), essi partirebbero da un costo fiscalmente riconosciuto – in capo al donante - che ignora tale l’affrancamento.
È un orientamento da tener presente e che potrebbe creare motivi di contenzioso. Si conferma che la distinzione tra redditi diversi (che, tra l’altro, “conoscono” le perdite) e redditi di capitale (che non le ammettono) crea, operativamente, problemi a non finire, ed è sicuramente auspicabile una semplificazione.