Imposte

Imu sui capannoni, sull’indeducibilità un doppio binario che non convince

Lascia dubbi la sostanziale promozione del tributo a partire dal 2013

Già diversi mesi fa la sentenza 163/2019 della Corte costituzionale aveva “rispedito al mittente” le censure di incostituzionalità dell’articolo 14, comma 1, primo periodo, del Dlgs 23/2011, essenzialmente perché ritenute mal formulate. In quel caso, avevamo già rilevato come quella pronuncia apparisse per così dire interlocutoria, se non dilatoria, visto il sentore di forte incostituzionalità della norma.

Auspicavamo inoltre – ferma l’ipoteticità di ogni previsione al riguardo – come un successivo intervento della Consulta potesse affrontare la questione senza creare doppi regimi temporali, sulla falsa riga di quanto avvenuto ad esempio con la sentenza 10/2015 in materia di Robin Hood Tax, che pure tante discussioni ha ingenerato. A quanto pare così non è stato.

Con comunicato di ieri, la Corte ha reso noto come le questioni di legittimità costituzionale avanzate dalla Commissione tributaria provinciale di Milano in relazione all’indeducibilità (integrale) dell’Imu dall’Ires per il periodo d’imposta 2012 debbano ritenersi fondate con riferimento agli articoli 3 e 53 della Costituzione, avendo il legislatore violato, nell’esercizio della propria discrezionalità, i principi di coerenza e ragionevolezza, poiché l’integrale indeducibilità dell’Imu sugli immobili strumentali contrasta con il presupposto dell’Ires dallo stesso legislatore individuato nel «reddito complessivo netto».

A fronte poi della conseguenziale estensione della medesima declaratoria di incostituzionalità alle disposizioni legislative successive, con cui è stata imposta la medesima indeducibilità del tributo locale (in misura pressoché integrale, e pari all’80% fino al 2018, e poi via via decrescente fino alla piena deducibilità dal 2022), in base a quanto si evince da detto comunicato la Corte avrebbe ritenuto che i principi di coerenza e ragionevolezza di cui sopra cederebbero il passo alle concomitanti esigenze di equilibrio del bilancio sancite dall’articolo 81 della Costituzione.

Ancora una volta parrebbe dunque affermarsi un doppio regime temporale (rectius, triplo): di incostituzionalità dell’imposizione per il 2012, di legittimità della stessa dal 2013 in poi, e di nuova piena deducibilità dell’Imu, in via normativa, a partire dal 2022.

Saranno ovviamente da approfondire le motivazioni che hanno indotto la Corte a tali conclusioni, e sperare che magari possa trovare ingresso quantomeno una differenziazione tra quanti, muovendosi per tempo, avevano già provveduto ad invocare l’illegittimità dell’imposizione anche per tali annualità.

Resta in ogni caso il fatto, come già osservato, che in un contesto, oggi ancor più di ieri, caratterizzato da conti pubblici costantemente (se non perennemente) non tendenti all’invocato equilibrio di bilancio, di debito pubblico costantemente crescente, e da forti expenditures, l’invocazione dell’articolo 81 della Costituzione appaia, piuttosto che lo strumento per assicurare il lodevole bilanciamento di concorrenti interessi costituzionali, il grimaldello per scardinare quelli (art. 3 e 53 in primis) che pure ci si affanna così insistentemente a ribadire (sempre e solo per il passato più remoto non coperto da possibili iniziative di rimborso o per il futuro).

Affermare l’esistenza di limiti alla discrezionalità del legislatore tributario, che opera sempre per esigenze di finanza pubblica, ma ritenere che quegli stessi limiti possano essere sacrificati dinanzi alle evidentemente superiori esigenze erariali, si traduce infatti in maniera altrettanto palese nel trasformare quella discrezionalità in vero e proprio arbitrio, esattamente al contrario di quanto con forza si proclama laddove si ribadisce la necessità di coerenza e ragionevolezza nei comportamenti del medesimo legislatore.

Considerato quindi l’attuale livello di debito pubblico italiano e l’andamento dell’economia, pare lecito attendersi d’ora in avanti angherie tributarie di ogni genere, dal momento che sussisteranno sempre superiori ragioni di gettito a giustificarle. Tanto vale sfilare definitivamente il 3 e il 53 dal mazzo dei principi costituzionali, perché tanto il banco potrà giocare sempre il suo jolly.

Resta infine oscuro come mai le medesime esigenze di finanza pubblica non abbiano impedito, ad esempio nella recentissima sentenza 234/2020 depositata appena il 9 novembre 2020, di ritenere costituzionalmente illegittimo il c.d. “contributo di solidarietà sulle pensioni d’oro” della durata quinquennale, perché eccessiva rispetto all’orizzonte triennale del bilancio di previsione dello Stato (a meno di non credere che da qui a 3 anni si sia riusciti a rimettere in equilibrio lo sbilenco bilancio statale o che “principi sovra costituzionali” debbano in tal caso prevalere finanche sull’equilibrio stesso del bilancio statale).

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