Affitto dell’unica azienda, stop alla deducibilità degli interessi passivi
La sentenza 23872/2020 della Cassazione: si perde la qualifica di imprenditore e non ci si può più avvalere della deducibilità dal reddito d’impresa
L’imprenditore che concede in affitto la sua unica azienda perde la qualifica di imprenditore e, di conseguenza, non può più avvalersi dei meccanismi di deducibilità previsti per il reddito d’impresa a fronte di un reddito costituito dai canoni di affitto dell’azienda. Questi ultimi, in difetto di qualsiasi atto di residuata gestione, non si possono considerare conseguiti nell’esercizio dell’originaria impresa, che risulta essere cessata in conseguenza del subentro del terzo. Pertanto, in base agli articoli 63 e 75 del Tuir, deve sussistere sempre e comunque un collegamento tra reddito imprenditoriale e componente negativo deducibile che, tuttavia, non può si riscontrare in un reddito “ontologicamente” diverso in quanto estraneo all’attività dell’impresa medesima. La deducibilità degli interessi passivi, legittima ove gli stessi siano sostenuti in presenza e in funzione dell’esercizio dell’attività d’impresa (intesa come organizzazione di uomini e mezzi) deve essere esclusa, per il venir meno della ratio della previsione, quando tale attività risulti, a tutti gli effetti, esercitata da un soggetto terzo. A tale conclusione è giunta la Cassazione con la sentenza 23872/2020.
Il contratto di affitto di azienda, così come disciplinato dal Codice civile, consente di trasferire, in via temporanea, l’attività economica esercitata a un nuovo soggetto, differente dal proprietario. Nella vita delle imprese condotte in forma di imprese individuali, possono presentarsi problematiche varie e particolari tali da suggerire al soggetto titolare dell’attività di considerare la possibilità di concedere temporaneamente in godimento a un terzo l’azienda, conservandone la proprietà.
Nel caso in cui l’imprenditore individuale conceda a terzi il diritto di utilizzare la propria azienda per un determinato periodo, in base a un contratto di affitto o di usufrutto di azienda, quest’ultimo si trova evidentemente a perdere la qualifica di imprenditore, venendo a mancare un esercizio diretto di un’attività commerciale (Cassazione, ordinanza 19430/2018).
In una posizione analoga si trovano anche gli eredi dell’imprenditore individuale che decidono di non proseguire l’attività commerciale del defunto e che, pertanto, concedono l’azienda in affitto o in usufrutto a terzi.
I corrispettivi spettanti al titolare dell’azienda concessa in affitto o in usufrutto sono qualificati come redditi diversi (articolo 67 lettera h del Tuir) e sono determinati secondo il criterio di cassa in base alla differenza tra l’ammontare percepito nel periodo d’imposta e le spese specificamente inerenti alla loro produzione (articolo 71 comma 2 del Tuir). In tal caso l’inadempimento del conduttore e, di conseguenza, il mancato pagamento del canone di affitto, non produce effetti impositivi in quanto non viene rispettato il criterio di imputazione temporale del componente positivo di reddito (principio di cassa).
Qualora l’unica azienda concessa in affitto o in usufrutto venga successivamente ceduta a terzi la plusvalenza generata da parte cedente non si considera ottenuta nell’esercizio dell’impresa, bensì viene considerata come una fattispecie tipica dei redditi diversi (articolo 67 lettera h-bis del Tuir).
Risolvendo una questione che aveva dato adito a numerosi dubbi interpretativi, la norma menzionata esclude dunque che i proventi della cessione dell’unica azienda, di cui si è spossessato il titolare in forza di un contratto di affitto o di una concessione in usufrutto, siano da ricomprendere nel reddito di impresa (Cassazione sentenza 12138/2019). È peraltro irrilevante che il cedente abbia effettivamente esercitato l’impresa commerciale prima di procedere all’affitto di azienda (Cassazione sentenza 14196/2000) e, di conseguenza, può trovare applicare la tassazione separata in ordine a tale plusvalenza ai sensi dell’articolo 17 lettera g) del Tuir.